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    Antiriciclaggio, gli obblighi di verifica della clientela

    Il riciclaggio di denaro, fenomeno tristemente noto alla modernità, è il reinvestimento di capitali illeciti in attività lecite. In altri termini il denaro sporco, tramite una serie di passaggi che possono involgere anche i professionisti, viene lavato e impiegato nei settori immobiliare, imprenditoriale e finanziario. Se pensiamo che tale pratica occupa circa il 10% del PIL mondiale comprendiamo l’importanza rilevante che questo fenomeno illecito riveste impattando negativamente con il nostro sistema e con l’economia in generale.

    L’attuale disciplina punitiva del riciclaggio 1 prende le mosse dal D.L. 21 marzo 1978, n. 59, poi convertito nella L. 18 maggio 1978, n. 191 che inaugura un complesso iter legislativo concluso ad oggi con l’art. 648-bis c.p. Nella formulazione originaria del reato non si menzionava in modo espresso la parola “riciclaggio”, veniva previsto un elenco chiuso di reati presupposto ed era prevista la clausola di riserva “fuori dai casi di concorso” che escludeva il c.d. autoriciclaggio. La prima norma che innova introducendo il termine oggi tanto in voga è l’art. 23 della L. 19 marzo 1990, n. 55 che ha altresì ampliato i reati presupposto prevedendo tra questi anche i delitti concernenti la produzione o il traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope. A seguito poi della ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa sul riciclaggio approvata l’8 novembre 1990 a Strasburgo, nel 1993 l’oggetto materiale del reato veniva ampliato passando dal “denaro o valori” al “denaro, beni o altre utilità”2.

    L’attuale struttura del reato ha visto l’elisione dell’elenco dei reati presupposto potendo oggi esser posto alla base del riciclaggio ciascun delitto non colposo venendo così a colpire ogni illecito idoneo a produrre proventi. L’art. 648-bis c.p. punisce infatti chiunque, al di fuori delle ipotesi di concorso nel reato, sostituisce o trasferisce denaro, beni ovvero altre utilità provenienti da un delitto non colposo nonché chiunque compia operazioni di altra natura tali da ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del bene riciclato3. Il soggetto attivo deve quindi essere terzo rispetto al reato presupposto e l’elemento psicologico posto alla base del suo atto sarà distinto da quello che ha animato il reo che ha commesso il fatto presupposto. Un reato comune, commissibile da chiunque senza che necessiti una particolare qualifica in capo all’agente, e frazionato sia in punto oggettivo che soggettivo: le azioni che ruotano attorno all’illecito del riciclaggio devono essere necessariamente commesse da più soggetti ed in differenti modalità proprio allo scopo di rendere il meno agevole possibile la ricostruzione dell’atto criminoso complessivo, quindi di identificare un bene apparentemente “pulito” in uno originariamente “sporco”.

    La politica criminale del Legislatore italiano, chiaramente incentrata su quella perseguita dal reciproco sovranazionale europeo, è quella di un allargamento della fattispecie criminosa in modo tale da ricomprendere entro la definizione di riciclaggio qualsiasi fenomeno illecito che, in termini di effettività e concretezza, mini al sistema economico.

    La condicio sine qua non affinché possa efficacemente delinearsi il reato di riciclaggio è quindi rappresentata da un presupposto illecito criminale che, come abbiamo avuto modo di affermare qui sopra, ha visto un allargamento nelle condotte illecite di base. Invero le direttive unionali, specialmente l’ultima n. 2015/849 che ha dato le mosse al D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 90, definiscono il riciclaggio “conversion or transfer of property, knowing that such property is derived from criminal activity”. L’attività criminosa di base è indefinita e possiamo dunque affermare che è potenzialmente considerabile reato presupposto del riciclaggio ogni delitto non colposo da cui scaturisce un provento suscettibile di una valutazione economica.

    Un interrogativo si è sviluppato con riferimento ai reati tributari, nella specie se essi possano o meno essere considerati presupposto del riciclaggio. Sul punto è intervenuta prima la Banca d’Italia con le Istruzioni operative per l’individuazione di operazioni sospette, c.d. Decalogo-ter, del 24 agosto 2010, poi la Guardia di Finanza con una circolare del 18 agosto 2010. Si è quindi formulata la prassi secondo cui «le violazioni delle norme tributarie sono strumento utilizzato per precostituire fondi di provenienza illecita da reinserire nel circuito economico ovvero possono rappresentare una delle manifestazioni di più articolate condotte criminose volte ad immettere in attività economiche apparentemente lecite disponibilità derivanti da altri illeciti. Operazioni connesse a condotte che non costituiscono delitto sotto il profilo fiscale possono comunque costituire strumento per occultare attività criminose di altra natura»4.

    Una parte della dottrina 5 esclude dai delitti presupposto quelli in materia di imposte dirette e di imposte sul valore aggiunto in quanto non producono ricchezza mentre, per la ragione opposta, ricomprende nelle ipotesi base i delitti di contrabbando doganale (sono generatori di ricchezza). Le fattispecie punitive previste dal D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 – e successive modifiche – in quanto generanti utilità illecite potenzialmente oggetto di riciclaggio, sono annoverabili tra i reati base. Invero la dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, la dichiarazione infedele, l’omessa dichiarazione, l’emissione di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti, l’occultamento o distruzione di documenti contabili, l’omesso versamento di ritenute dovute o certificate, l’omesso versamento dell’IVA, l’indebita compensazione, la frode in riscossione e la frode nella transazione fiscale, determinano un risparmio del quantum non versato al fisco e possono ritenersi pienamente reati presupposto nel caso in cui possa essere dimostrato che proprio quel denaro proviene dal delitto tributario.

    Nel contesto del riciclaggio il Legislatore italiano, da un lato adeguandosi ad uno standard internazionale e dall’altro lato non intendendo mutare la norma di cui all’art. 648-ter c.p., tramite la L. 15 dicembre 2014, n. 186 ha introdotto l’art. 648-ter1 col quale ha definito l’autoriciclaggio. La nuova fattispecie sanziona il soggetto che non solo pone in essere la condotta di riciclaggio ma attua altresì l’illecito base.

    Al fine di evitare il bis in idem il Legislatore aveva previsto nel delitto di riciclaggio la clausola di riserva “fuori dai casi di concorso nel reato” escludendo così la punibilità ex art. 648-ter c.p. per colui il quale ha commesso o abbia concorso a commettere il reato presupposto ritenendo che «la pena prevista per il reato presupposto racchiuda già in sé la punizione per l’eventuale dissimulazione dei proventi»6: per esempio la sanzione per il delitto di furto prevede e punisce già anche il fisiologico intento del ladro di “pulire” i proventi del reato presupposto.

    La novella dell’art. 648-ter1 c.p. ha arginato l’effettivo rischio per cui i rei rischiavano di essere destinatari di una sanzione del tutto irrisoria per il fatto commesso. L’autoriciclaggio non viola dunque il principio del ne bis in idem sostanziale assoggettando la norma un mero post factum della precedente condotta illecita. Di contro la non punizione della condotta di autoriciclaggio avrebbe determinato la totale assenza di tutela giuridica per quegli stessi beni giuridici oggetto del reato.
    2. Le fonti giuridiche
    In tema di riciclaggio l’operatore si trova dinanzi ad un numero considerevole di fonti che originano tutte a livello sovrastatale: o internazionali, con un differente livello di cogenza, o eurounitarie, dove rinveniamo direttive o atti propri della cooperazione intergovernativa, o ancora a livello Nazioni Unite.

    Il Big Bang dell’antiriciclaggio risale al 12 dicembre 1988 ossia al momento in cui i Paesi membri del Comitato di Basilea per le regolamentazioni bancarie e le pratiche di vigilanza firmavano la Dichiarazione di principi sulla prevenzione dell’utilizzo a fini criminosi del sistema bancario per il riciclaggio di fondi di provenienza illecita. È in questo contesto che, per la prima volta, un gruppo di Stati rileva come altamente dannoso per il sistema economico globale il fenomeno del riciclaggio – seppur non conosciuto in forma specifica da tutti i Membri alcuni dei quali ancora lo inquadravano nelle fattispecie di ricettazione – e sviluppano quindi, di comune intento, un contrasto a detto fenomeno illecito. Da questo momento tutti gli Istituti bancari dovranno attrezzarsi in ossequio all’obbligo di verificazione della clientela mediante procedure efficaci.

    Qualche giorno dopo, il 20 dicembre, viene conclusa a Vienna la Convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico illecito di stupefacenti e sostanze psicotrope con cui, per la prima volta e livello globale si incentiva la tipizzazione penale autonoma della condotta di riciclaggio della res proveniente da reato. Ciascuna parte ai sensi dell’art. 3, c. 1, lett. b, si obbliga ad adottare “i provvedimenti necessari per attribuire il carattere di reato”, oltre le altre condotte, alla conversione, al trasferimento, alla dissimulazione ovvero alla contraffazione dell’origine dei beni, condotte poste in essere con la consapevolezza che i beni oggetto delle medesime provengono da uno dei reati stabiliti dal trattato.

    La Convenzione si attesta quindi come primo effettivo atto di sanzione al fenomeno del riciclaggio seppur limitato ai reati presupposto enucleati all’interno della medesima. Due anni più tardi la Convenzione sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi da reato firmata a Strasburgo l’8 novembre 1990 – poi novellata dalla Convenzione di Varsavia del 16 maggio 2015 – ha definito il concetto di reato presupposto come quel fatto penalmente illecito dal quale si generano i proventi oggetto del riciclaggio. Si amplia così sia la casistica del reato base sia, di fatto, l’efficacia della punibilità delle condotte di riciclaggio.

    Last but not least è la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale sottoscritta nel corso della Conferenza di Palermo del 12-15 dicembre 2000. Essa introduce nel quadro internazionale la costituzione delle Financial Intelligence Units in senno ad ogni Stato deputandole organi di raccolta, analisi e trasmissione delle informazioni concernenti possibili casi di riciclaggio.

    Particolare rilievo, specie per il nostro Paese, assumono le fonti sviluppate a livello eurounionale con le famose quattro direttive antiriciclaggio che hanno saputo rincorrere efficacemente ed adeguarsi alle innovazioni ed agli sviluppi in punto tecnologia e modernizzazione dei reati di riciclaggio.

    L’origine dell’attuale impianto di derivazione europeo la si ha avuta con la Direttiva 91/308/CEE, c.d. prima direttiva antiriciclaggio – recepita dall’Ordinamento italiano con la L. 5 luglio 1991, n. 197 – che, perseguendo il duplice obiettivo della trasparenza del mercato finanziario e dell’intercettazione delle operazioni sospette, ha affidato al sistema economico rappresentato dalle banche e dagli intermediari i compiti di prevenzione mediante l’esame delle transazioni finanziarie. Si sono così estrinsecati gli obblighi di identificazione della clientela, di registrazione dei dati e delle operazioni, e della segnalazione all’Autorità competente delle operazioni sospette, Autorità che il Legislatore nostrano aveva identificato 7 con l’Ufficio Italiano dei Cambi. La legge interna di recepimento aveva poi previsto un’ulteriore misura nell’ottica di prevenzione al riciclaggio: il limite massimo di 12.500 euro per l’uso di denaro contante o titoli al portatore obbligando l’operazione di valore superiore al transito, e quindi al vaglio, nel sistema finanziario.

    Dieci anni più tardi l’impianto normativo è stato novellato dalla Direttiva 2001/97/CE, c.d. seconda direttiva antiriciclaggio – recepita dal D.Lgs. 20 febbraio 2004, n. 56 – che ha imposto agli Stati membri un maggior livello di prescrizioni ampliando l’ambito soggettivo dei destinatari degli obblighi in punto prevenzione al riciclaggio. Questi sono quindi stati estesi a categorie diverse da quelle prettamente tipiche del contesto finanziario e quindi, tra gli altri, agli avvocati, ai commercialisti, ai revisori dei conti ed ai notai. Queste professionalità divengono così funzionali alle attività della Pubblica Autorità nella prevenzione, nell’indagine e nel contrasto al fenomeno del riciclaggio in un’ottica di efficace supporto.

    Tale ausilio è coniugato nell’identificazione del cliente, nella registrazione dell’operazione, nella conservazione dei relativi dati e nell’eventuale segnalazione delle operazioni ritenute sospette. Nel caso in cui venisse instaurato un rapporto d’affari con un determinato soggetto il professionista era gravato dell’obbligo di identificazione che poteva ragionevolmente essere individuato nel momento del conferimento dell’incarico.

    Il quadro complessivo viene poi ampliato con la terza Direttiva 2005/60/CE rubricata Prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo. Come agevolmente è intuibile lo scenario geopolitico internazionale, mutato profondamente a far data dall’11 settembre 2001, ha aperto all’esigenza di contrastare il nuovo fenomeno del finanziamento del terrorismo, nella specie di attenzionare capitali che seppur di lecita provenienza concorressero a finanziare questo nuovo trend criminale8. Il Legislatore interno ha recepito la norma comunitaria tramite due decreti legislativi, il n. 109 del 22 giugno 2007 ed il n. 231 del 21 novembre 2007, con cui introduce il concetto del beneficial owner e della verifica adeguata9. Infine è doveroso ricordare la Direttiva 2015/849, c.d. quarta direttiva – recepita nel nostro Ordinamento dal D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 90 – che ha rafforzato il contesto normativo esistente adeguandolo alle sopravvenute esigenze.
    3. La verifica della clientela
    Come sopra anticipato il cuore della novella di cui al D. Lgs. 231/2007 è rappresentato dalla verifica adeguata della clientela che rafforza il preesistente obbligo di identificazione del soggetto che effettua l’operazione nell’ottica di una maggiormente approfondita analisi del soggetto agente. Invero se l’identificazione si realizza mediante la mera acquisizione anagrafica dei dati del cliente, l’adeguata verifica individua lo scopo dell’operazione10.

    Il nuovo assetto valutativo, attuato con il D. Lgs. 90/2017, segue l’approccio know your customer (KYC) che delinea una due diligence finanziaria complessa basata sulla valutazione del rischio di profilo soggettivo e di profilo oggettivo. Il primo involge il cliente e ne esamina la natura giuridica, l’attività prevalentemente svolta, l’area geografica di residenza o sede, nonché il comportamento tenuto al momento dell’operazione. Il secondo si riferisce all’operazione (ovvero prestazione professionale) individuandone il tipo, la modalità di svolgimento, l’ammontare, l’area geografica di destinazione del prodotto e, valutati in rapporto all’attività svolta dal cliente, la frequenza, il volume e la ragionevolezza dell’operazione.

    La normativa ha stabilito che l’obbligo di verifica adeguata della clientela insorge nel momento in cui si instaura un rapporto continuativo o viene conferito un incarico professionale, nell’istante in cui venga eseguita un’operazione occasionale che comporta la movimentazione di mezzi di pagamento di importo pari o superiore a 15.000 euro, nell’ipotesi di un trasferimento di fondi superiore a 1.000 euro, in caso sospetto di riciclaggio o finanziamento al terrorismo ed infine nel caso in cui ci siano dubbi sui dati ottenuti al momento dell’identificazione del cliente.

    Il cliente, infatti, viene identificato tramite un documento di identità in corso di validità del quale l’operatore professionale deve tenerne copia salvo il caso in cui il cliente sia già stato identificato precedentemente. Colui il quale si serve dell’attività professionale fornisce dunque sotto propria responsabilità tutte le informazioni necessarie a consentire l’identificazione del titolare effettivo.

    L’obbligo di adeguata verifica della clientela anche per operazioni a carattere occasionale e di importo inferiore a 15.000 euro grava altresì sulle banche, su Poste Italiane S.p.A., sugli istituti di pagamento e sugli istituti di moneta elettronica ivi compresi quelli aventi sede in altro Stato membro dell’Unione Europea per ogni prestazione di servizi di pagamento e per l’emissione o la distribuzione di moneta elettronica.

    Novità riguardano anche le persone giuridiche prevedendo per le imprese dotate di personalità giuridica tenute all’iscrizione nel Registro delle imprese e per le altre persone giuridiche private l’obbligo di comunicare al Registro le informazioni concernenti la propria titolarità effettiva, e stabilendo per i trust produttivi di effetti giuridici utili a fini tributari l’obbligo di iscrizione nell’apposita sezione speciale del Registro delle imprese. Detti soggetti giuridici devono conservare per un periodo temporale di almeno un lustro le informazioni adeguate e aggiornate concernenti la loro titolarità effettiva e fornirle, se richieste, ai soggetti preposti alla verifica adeguata della clientela.

    Detto vincolo coinvolge anche l’azione degli amministratori delle imprese e delle persone giuridiche private sopra menzionate comportando per questi un onere di acquisizione delle informazioni sulla base delle risultanze delle scritture contabili, dei bilanci, del libro dei soci, delle comunicazioni relative all’assetto proprietario o al controllo dell’ente, delle comunicazioni ricevute dai soci nonché da ogni altro dato che può rivelarsi utile. Nel caso in cui l’amministratore non ottenga l’assoluta chiarezza circa la titolarità effettiva dell’azienda per inerzia, rifiuto ingiustificato ovvero per rivelazioni fraudolente dei soci, questi saranno destinatari di sanzioni amministrative quali la non esercitabilità del diritto di voto del socio11.

    4. L’estrinsecazione dell’obbligo di verifica adeguata
    Al fine di riportare l’utilità del presente elaborato a fini pratici non possiamo esimerci dall’osservare come la vigente normativa, in ultimo il D.Lgs. 90/2017, abbia individuato gli steps necessari all’ossequio dell’obbligo di verifica adeguata.

    Il primo atto è l’identificazione del cliente. L’identità di chi esegue l’operazione viene accertata sulla base di documenti, dati ovvero informazioni che devono giungere da una fonte sicura. Il novero dei documenti di identità è chiuso e raggruppa quei documenti muniti di fotografia che asseverano l’identità del portatore e che vengono emessi – in formato cartaceo, magnetico o elettronico – da un’Autorità statale italiana, generalmente dalla Pubblica Amministrazione, ovvero da un Paese terzo. Ovviamente il documento d’identità tipico è la carta d’identità ma l’art. 35 del D. P. R. 28 dicembre 2000, n. 445 amplia il catalogo definendo come equipollenti il passaporto, la patente di guida, la patente nautica, il libretto di pensione, il patentino di abilitazione alla conduzione di impianti termici, la licenza di porto d’armi, non che le tessere di riconoscimento munite di fotografia e timbro – o altra segnatura equivalente – rilasciate dall’Amministrazione dello Stato. Ogni documento deve poi essere in corso di validità e quindi non scaduto.

    Il secondo adempimento che occorre compiere è l’identificazione del titolare effettivo tramite la verifica dell’identità di costui. Detto atto è meramente eventuale in quanto non in tutti i casi risulta esserci un titolare effettivo: in alcuni contesti non può infatti esistere la figura del titolare effettivo, si pensi alle società quotate, ai condomini ovvero ai luoghi di culto. L’identificazione varia poi a seconda che il soggetto sia una persona fisica ovvero una persona giuridica. In quest’ultimo caso occorrerà ottenere la denominazione, la sede legale e il codice fiscale. Nel caso di persona fisica si procede ad annotare, tramite il documento di identificazione, i dati anagrafici, l’indirizzo di residenza o domicilio, il codice fiscale e gli estremi del documento di identificazione. In ogni caso, quale che sia la misura di identificazione del titolare effettivo adottata, occorre ricostruire “con ragionevole attendibilità, l’assetto proprietario e di controllo del cliente”12.

    Avuto riguardo dell’individuazione dell’effettivo titolare, circa le società di capitali, l’art. 20, c. 2, del D.Lgs. 90/2017 specifica che la detenzione da parte di una persona fisica di una partecipazione il cui valore sia superiore al 25% del capitale del cliente costituisce indice di proprietà diretta, mentre la titolarità di una quota di partecipazioni superiore al 25% del capitale detenuta tramite una società controllata, ovvero fiduciaria o per interposta persona determina indice di proprietà indiretta.

    Nel caso in cui l’esame dell’assetto proprietario non porti all’individuazione univoca della persona fisica – o delle persone fisiche – cui sia attribuibile la proprietà diretta o indiretta della società, il comma 3 della medesima norma prevede che il titolare effettivo coincida col soggetto che detiene la maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria, possiede il controllo di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria, ovvero esercita un’influenza dominante grazie all’esistenza di particolari vincoli contrattuali.

    Nel caso in cui l’applicazione di questi criteri non abbia consentito comunque l’individuazione univoca del titolare – o dei titolari – effettivo questo coinciderà col fondatore, coi beneficiari ovvero con la persona fisica titolare di poteri di amministrazione o di direzione della società.

    Particolare rilevanza riveste poi il comma 6 dell’art. 20 che obbliga i soggetti gravati dalla verifica adeguata della clientela alla conservazione di quelle effettuate ai fini dell’individuazione del titolare effettivo. Dette verifiche debbono essere condotte dal professionista o dal suo collaboratore munito di delega alla presenza del cliente mente per quanto riguarda il titolare effettivo non è richiesta la sua presenza fisica.

    Circa i soggetti non comunitari per la loro identificazione si procede all’acquisizione dei dati anagrafici tramite il passaporto ovvero il permesso di soggiorno del quale se ne effettua copia. Nel caso in cui i dati identificativi del cliente risultino da atti pubblici, scritture private autenticate ovvero certificazioni con firma digitale; ovvero per i clienti che, ai sensi dell’art. 64 del D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, sono in possesso di identità digitale; per quelli i cui dati risultano da dichiarazioni consolari ovvero siano già stati identificati nel corso di un precedente rapporto professionale dal medesimo soggetto obbligato alla verifica; in tutti queste ipotesi, che a ragione di legge devono ritenersi tassative, è ammessa l’assenza del cliente.

    Particolarmente importante è la verifica, nel caso in cui si tratti con una società o un ente, dell’esistenza di un effettivo potere di rappresentanza in capo al cliente effettuabile tramite una visura camerale, ovvero tramite l’esistenza di una procura notarile, di un atto di nomina degli amministratori ovvero ancora mediante l’accesso al Registro delle imprese. Di detto potere occorrerà poi dar conto nell’adeguata verifica e conservarne traccia unitamente alla complessiva identificazione del cliente e dell’effettivo titolare13.

    Con riferimento alle fondazioni, alle associazione ed alle altre istituzioni di carattere privato che acquisiscano la personalità giuridica di cui al d.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361 il titolare effettivo coincide col beneficiario del patrimonio ovvero della prestazione della persona giuridica stessa, col fondatore – se in vita – nonché con i titolari delle funzioni direttive ed amministrative ai sensi del citato art. 20, c. 5. Circa i trust e le società fiduciarie i titolari effettivi devono essere individuati ex art. 22, c. 5, nel settlor, nel trustee, nel protector e nelle altre persone fisiche che, a qualsivoglia titolo, esercitino un controllo sul trust (o società fiduciaria) ovvero sui beni conferiti.

    Riassumendo possiamo affermare che mentre per le persone fisiche l’identificazione e verifica dell’identità del titolare effettivo è contestuale all’identificazione del cliente, per le persone giuridiche debbono essere adottate delle misure adeguate al rischio e volte all’identificazione dell’effettiva proprietà e struttura di controllo del cliente come il ricorso ai registri pubblici, ad elenchi, atti o documenti ad accesso pubblico ovvero richiedendo al proprio cliente ogni dato necessario ad ottenere le informazioni utili alla determinazione dell’effettiva titolarità.

    Ulteriori adempimenti sono poi rappresentati dal reperimento di informazioni circa lo scopo e la natura della prestazione professionale – non tralasciando l’acquisizione di informazioni circa le relazioni che intercorrono tra cliente ed esecutore, cliente e titolare effettivo e sull’attività lavorativa svolta – ed il controllo del rapporto professionale con il cliente che deve essere esercitato per tutta la durata del medesimo. Se è vero che non è previsto dalla norma in esame14 una specifica forma di esecuzione, è altresì vero che l’art. 21 impone al cliente di fornire, sotto la propria responsabilità, veritiere ed attuali informazioni necessarie per consentire al professionista di adempiere correttamente all’incarico ex lege previsto.

    Nel corso della prestazione è poi ravvisabile un costante obbligo di controllo che il professionista deve condurre analizzando le transazioni concluse e verificandone la compatibilità con la natura della persona fisica o giuridica già identificata, con le sue attività commerciali ed avendo riguardo all’origine dei fondi. La documentazione relativa ai dati ed alle informazioni della clientela deve poi essere sempre aggiornata.

    5. Le specie di obbligo

    L’obbligo di verifica adeguata può essere assolto mediante due tipologie di verifica, semplificata ovvero rafforzata, a seconda che vi sia un minor o maggior rischio di svolgere un’operazione che contrasta con la vigente normativa Anti Money Laundering (AML). È la legge che prevede i termini secondo cui è possibile una procedura semplificata in base a determinate categorie di clienti ed a determinate tipologie di prodotti che presentano un basso rischio di riciclaggio, diversamente, ovvero se il rischio è elevato, il soggetto tenuto alla verifica della clientela dovrà procedere in modo rafforzato.

    La semplificazione risiede nel profilo relativo all’estensione ed alla frequenza della verifica. Sul punto l’art. 23 del D. Lgs. 90/2017 evidenzia come anzitutto occorra che vi sia un basso rischio di riciclaggio o finanziamento al terrorismo valutato nel caso di specie, poi tempera l’obbligo in relazione alla tipologia del cliente ed al tipo di prodotti o servizi. Invero ai fini dell’applicazione semplificata, la verifica non è rafforzata se il cliente è una società ammessa alla quotazione in un mercato regolamentato, in quanto di default le sono imposti obblighi di trasparenza circa la titolarità effettiva, se sono enti facenti parte della Pubblica Amministrazione ovvero istituzioni o organismi che svolgono funzioni pubbliche, ed infine se il cliente risiede in aree geografiche a basso rischio di riciclaggio.

    Sul punto il Legislatore ha curato un’elencazione indiretta alla lettera c) della norma ricomprendendo i Paesi membri dell’Unione Europea, gli Stati dotati di efficaci sistemi di prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo, i Paesi terzi che sono valutati da fonti autorevoli ed indipendenti15 a basso tasso di corruzione e permeabilità ad altre attività criminose ovvero quelli che, valutati dalle medesime fonti, prevedano in termini di effettività presidi di prevenzione al riciclaggio ed al finanziamento del terrorismo in modo coerente con le raccomandazioni del Gruppo d’Azione Finanziaria Internazionale.

    Circa la tipologia di prodotti, servizi, operazioni o canali di distribuzione la norma cita i contratti assicurativi vita con premio annuale inferiore o uguale a 1000,00 euro o il cui premio unico sia uguale o minore di 2500,00 euro; le forme pensionistiche complementari di cui al D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 salvo che non prevedano clausole di riscatto diverse da quelle elencate all’art. 14 del citato decreto legislativo e che non possano fungere a garanzia per un prestito salvo specifiche previsioni di legge; i regimi previdenziali (o sistemi analoghi) che versano prestazioni pensionistiche ai dipendenti tramite detrazione dalla retribuzione senza previsione del poter di disposizione e trasferimento dei diritti dei beneficiari salvo che successivamente al decesso del titolare; i prodotti e servizi finanziari che favoriscono l’inclusione finanziaria mediante ben definiti e circoscritti servizi; i prodotti in cui i rischi di riciclaggio o finanziamento al terrorismo sono attenuati da fattori quali trasparenza della titolarità ovvero limiti di spesa; nonché in presenza di moneta elettronica utilizzabile per l’acquisto di beni e servizi non ricaricabile con moneta elettronica anonima e salvo che il dispositivo non sia ricaricabile ovvero l’importo massimo memorizzato e mensile d’uso non superi quota 250 euro entro i confini dello Stato italiano16.

    L’art. 24 del D. Lgs. 90/2017 tratta invece degli obblighi rafforzati che tengono conto dei fattori di rischio relativi al cliente; di quelli concernenti prodotti, servizi, operazioni o canali di distribuzione e di quelli legati al rischio geografico.

    Il Legislatore impone il rafforzamento delle cautele per tutto ciò che può avere profili di opacità: rapporti o prestazioni continuative che o hanno manifestato circostanze anomale al momento della contrazione del primo rapporto o le manifestano nelle fasi di esecuzione; clienti che risiedono o hanno sede in aree geografiche critiche; strutture qualificabili veicoli di interposizione patrimoniale; società emittenti azioni al portatore o che siano partecipate da fiduciari; attività economiche caratterizzate da un abbondante uso del contante; ed assetto anomalo o eccessivamente complesso – avuto riguardo alla natura in specie – della società cliente. Possiamo dunque affermare che iuris tantum gruppi e strutture complesse, trust, fiduciarie o società anonime di diritto estero debbano considerarsi, nell’ottica del Legislatore patrio, potenziali veicoli di riciclaggio.

    Circa i fattori di rischio relativi alle prestazioni professionali la norma determina un’allerta nei confronti di attività ad elevato grado di personalizzazione dell’offerta professionale rivolta a clienti significativamente dotati di patrimonio: certo il richiamo è al trust ovvero alla costituzione di patrimoni destinati. Sono poi ritenute a rischio le prestazioni capaci di favorire l’anonimato, le operazioni di pagamento anonime ossia non ricollegabili ai clienti, quelle occasionali eseguite a distanza e senza possibilità di portare a termine un adeguato riconoscimento nonché tutte le pratiche commerciali di nuova generazione che, utilizzando la tecnologia dell’on-line, sono ex se definibili ad alto rischio di riciclaggio e finanziamento al terrorismo17.

    Con riguardo ai fattori di rischio geografici si rinvia a quanto detto in precedenza per gli obblighi semplificati ossia la verifica rafforzata dovrà essere effettuata nel caso in cui la prestazione professionale coinvolga Paesi non GAFI compliant ovvero non ritenuti cooperativi dagli Enti internazionali (UE, GAFI, FMI, Moneyval) o ancora Stati con al proprio interno un elevato tasso di corruzione e crimini gravi, piuttosto che Paesi assoggettati a sanzioni o embarghi. Le misure di adeguata verifica rafforzata trovano poi un’imposizione nel caso di clientela residente nei Paesi definiti ad alto rischio dalla Commissione europea, o per i rapporti di corrispondenza transfrontalieri con un ente creditizio o istituto finanziario corrispondente di un Paese terzo18, nonché nel caso di prestazioni tenute a beneficio di clienti – e titolari effettivi – politicamente esposti.

    Quella della “persona politicamente esposta” è una delle novità introdotte dal D.Lgs. 90/2017 e trova la sua definizione all’interno dell’art. 1. Ivi rientrano tutte le quelle persone fisiche che occupano o hanno rivestito cariche pubbliche di rilievo, i loro familiari diretti nonché le persone che intrattengono notoriamente stretti legami con questi. La norma cura una dettagliata definizione facendo rientrare tra i soggetti che hanno occupato importanti cariche pubbliche il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio, il Ministro, il Viceministro, il Sottosegretario, il senatore, il deputato, il parlamentare europeo, il Presidente di Regione, l’assessore regionale, il consigliere regionale, il Sindaco del capoluogo di Provincia o della Città Metropolitana, il Sindaco del Comune con popolazione non inferiore a 15.000 abitanti nonché cariche analoghe negli Stati esteri; i membri degli organi direttivi centrali dei partiti politici, delle Banche centrali e delle Autorità indipendenti, i giudici della Corte Costituzionale, della Corte di Cassazione, della Corte dei Conti, il Consigliere di Stato e gli altri componenti del Consiglio della Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana; l’ambasciatore, gli incaricati d’affari e gli ufficiali di grado apicale delle Forze Armate – da ricomprendervi ragionevolmente anche gli alti dirigenti delle Forze di Polizia, oggi non annoverabili più nel bacino delle Forze Armate – ovvero le cariche analoghe a queste; i componenti degli organi apicali delle società controllate, anche indirettamente, dallo Stato italiano o da uno Stato estero ovvero partecipate da Regioni, Comuni capoluoghi di Provincia e Città Metropolitane o Comuni con popolazione non inferiore ai 15.000 abitanti; il Direttore Generale dell’Azienda Sanitaria Locale, dell’Azienda ospedaliera, dell’Azienda ospedaliera universitaria nonché di altri Enti del Servizio Sanitario Nazionale; ed i membri degli organi di gestione delle Organizzazioni internazionali.

    Contemporaneamente la medesima norma definisce poi familiare della persona politicamente esposta il genitore, il coniuge o assimilabile ed i figli con i loro coniugi, e “soggetto con cui intrattiene stretti legami” la persona fisica legata per via della titolarità effettiva congiunta di soggetti giuridici ovvero di rapporti d’affari, nonché il soggetto che detiene solo formalmente il controllo totalitario di un ente notoriamente costituito nell’interesse ed a beneficio della persona politicamente esposta.

    La qualificazione di persona politicamente esposta assume rilievo, quindi, tanto per il cliente che per il titolare effettivo e ciascun professionista deve definire dapprima se il cliente o il titolare effettivo rientrino all’interno della definizione di persona politicamente esposta. Le verifiche devono essere commisurate al grado di rischio dei diversi prodotti o transazioni richiesti, in altre parole devono essere efficaci e utilizzare ogni informazione proveniente da fonti attendibili – siti internet o database ufficiali – per poi assicurare costantemente un controllo sulla prestazione professionale. Non esistendo un elenco ufficiale che enumera le persone politicamente esposte è possibile sia il ricorso alle banca dati stilate dalle società specializzate, sia la creazione di una banca dati propria del professionista che, una volta assunte le informazioni sul proprio cliente, se del caso lo inserisca nell’elenco interno.

    Riassumendo l’adeguata verifica, così come previsto dal comma 7 dell’art. 17 D. Lgs. 231/2007 come novellato dal D. Lgs. 90/2017, non è richiesta nel caso in cui l’attività del professionista sia di mera redazione e trasmissione ovvero di sola trasmissione delle dichiarazioni derivanti da obblighi fiscali e degli adempimenti concernenti l’amministrazione del personale ex art. 2, c. 1, L. 11 gennaio 1979, n. 12. In tutti gli altri casi l’obbligo di verifica va’ sempre atteso o nella forma semplificata, ossia richiesta dello scopo e della natura della prestazione oltre che identificazione del titolare effettivo19, ovvero in quella rafforzata per clienti posti ad alto rischio per i quali, come abbiamo già avuto modo di dire, è necessaria la creazione di un approfondito bagaglio informativo sia sulla natura dell’attività sia avendo riguardo del cliente e del suo rapporto con gli eventuali titolari effettivi.

    Invero in presenza di hight risk di antiriciclaggio o finanziamento del terrorismo la norma non delinea una verifica specifica e l’operatore ovvero il professionista dovranno porre in essere gli adempimenti canonici seppur con maggior riguardo ossia non limitandosi ad una passiva acquisizione dei dati informativi del cliente bensì acquisendo informazioni, per esempio, da registri od elenchi pubblici. Nel caso in cui il cliente non si presenti fisicamente avanti l’obbligato alla verifica, questo dovrà accertarne l’identità tramite documenti e informazioni supplementari, adottare ogni misura ulteriore per la verifica o certificazione dei documenti, richiedere eventuali conferme da parte di enti finanziari, ed assicurarsi che il pagamento dell’operazione sia effettuato mediante un conto intestato al cliente. Nel caso di persone politicamente esposte invece la procedura vuole l’adozione di ogni misura adeguata a stabilire l’origine del patrimonio e dei fondi impiegati nonché un controllo rafforzato e costante della prestazione professionale.